The blogfather of Iran. Così viene chiamato dai media internazionali Hossein Derakhshan, detto Hoder. Trentacinque anni, il padre dei blogger iraniani nei giorni scorsi è stato condannato a morte dalla Corte rivoluzionaria della Repubblica islamica. La condanna alla pena capitale, fanno sapere fonti vicine alla sua famiglia, dovrebbe essere confermata entro un mese. Il drammatico epilogo arriva dopo due anni di detenzione in isolamento e dopo un processo che le organizzazioni internazionali come Amnesty International hanno bollato come una farsa. Dopo essere stato accusato di essere una spia al soldo dello Stato d’Israele, l’accusa nei suoi confronti si è tramutata, riferisce Amnesty, in un generico “oltraggio alla religione”. Gli ambienti a lui vicini, dagli amici ai familiari, sono però convinti che la pena che gli è stata inflitta e il durissimo trattamento carcerario (inusuale anche per l’Iran), siano una forma di ritorsione nei suoi confronti “per avere insegnato agli iraniani a bloggare”, come ha scritto il quotidiano inglese The Guardian.
La sua vicenda giudiziaria è paradossale e la sua biografia “complessa e a tratti contraddittoria”, come riferisce Alessandra Cecolin, sua ex compagna di studi. “Hossein è un rampollo dell’élite conservatrice – continua Alessandra – la sua famiglia è molto vicina a Khamenei”, la guida suprema dell’Iran. Dopo essere stato educato nelle migliori università del Paese e dopo avere intrapreso la professione giornalistica, nel 1999 Hossein comincia ad occuparsi di Internet, cultura digitale e democrazia dalle colonne del quotidiano riformista Asr-e Azadegan (L’epoca dei liberi), chiuso quasi subito dagli ayatollah.
Nonostante questi siano i tempi del governo Katami e della sua timida azione progressista, Hoder decide di trasferirsi a Toronto, in Canada, dove apre il suo primo blog: Sardabir: khodam (Editore: me stesso), in lingua farsi. Ma prima di lasciare il paese il giornalista viene trattenuto per alcuni giorni dal Misiri, il ministero della sicurezza nazionale che lo interroga sul suo lavoro da giornalista o lo obbliga a firmare pubbliche scuse per la sua attività ritenuta sovversiva dal regime.
Una volta lontano da Teheran e dalle censure della Repubblica islamica, Hossein approfondisce le sue conoscenze sul ruolo che l’informazione online, i blog e i wiki possono avere nella battaglia per la libertà d’espressione. E’ in questi anni che si conquista il nickname di The Blogfather. Partecipa a incontri su media e democrazia in mezzo mondo, ma soprattutto dimostra ai ragazzi della sua generazione che attraverso Internet si possono aggirare le barriere della censura imposte dal regime iraniano. A tale riguardo nel 2003 fonda la piattaforma Stop censuring us (Basta censure), un sito che monitora la situazione della repressione sulla Rete in Iran. Dal 2004 gli ayatollah cominciano a censurare l’attività online del blogfather.
Dopo varie esperienze e dopo un viaggio in Israele (cosa vietata dalle leggi iraniane, anche se Hossein entra nello Stato ebraico con passaporto e cittadinanza canadese), il blogger comincia a pensare di tornare a Teheran. I suoi genitori si muovono all’interno della nomenclatura del regime per assicurarsi che dopo l’eventuale rimpatrio non ci siano conseguenze penali per la sua attività di blogger. Sembra tutto fatto e nel 2008 Hoder torna a casa. Per lui addirittura si profila un qualche incarico governativo. Ma una settimana dopo il suo rientro a Teheran, il primo dicembre, viene prelevato dall’abitazione di famiglia e portato in carcere. Passano i mesi e di Hossein non si sa niente, neanche in quale carcere è detenuto. La famiglia non conosce neanche i reati che vengono contestati al figlio. Alcuni media attribuiscono l’arresto ai viaggi in Israele che Hoder aveva puntualmente documentato nei suoi weblog.
Il 30 dicembre 2008, dopo due mesi dal suo sequestro, le autorità iraniane comunicano lo stato d’arresto dell’internauta ma nulla dicono dei capi di imputazione. Trapela la bufala che la vicenda abbia a che vedere con qualcosa che Hoder ha scritto sugli Imam puri, patriarchi dell’Islam sciita. Nell’aprile 2009 il New York Times riporta la notizia che ancora nessun capo di imputazione è stato formulato contro il blogger, che continua a rimanere in isolamento. Passa un anno e la notizia comincia a montare. Nonostante il severo controllo sull’informazione esercitato dal regime, 19 blogger iraniani mettono in piedi il sito Internet “Free the Blogfather” e anche la famiglia del ragazzo prende coraggio. Il 30 ottobre 2009, dopo un anno dall’arresto, il padre di Hoder scrive una lettera aperta al ministro della giustizia chiedendo di poter incontrare il ragazzo. La richiesta viene accolta e nell’incontro Hossein conferma quello che Human rights watch e altre organizzazioni per i diritti umani sostengono da tempo. In carcere è stato sottoposto a torture e a trattamenti umani degradanti.
Il 23 giugno, dopo quasi due anni di detenzione senza un’accusa ufficiale, inizia finalmente il primo processo che dura circa un mese. Dai palazzi però non trapela neanche una parola. Anzi sì. Si apprende che Hoder è stato condannato a morte con l’accusa di “collaborare con stati nemici, aver fatto propaganda contro il regime, aver oltraggiato l’Islam e aver aiutato gruppi anti-rivoluzionari”.
In Iran la spirale di repressione contro la libertà d’espressione continua, soprattutto dopo le manifestazioni di protesta in seguito alla dubbia rielezione del presidente Ahmadinejad nel 2009. Durante la detenzione di Hoder altri internauti sono finiti dietro le sbarre, come l’attivista Shiva Nazar Ahari. Intanto restano ancora da chiarire le circostanze della morte in carcere del blogger Omid Reza Mir Sayafi, avvenuta lo scorso 18 marzo 2009. La blogosfera iraniana e il popolo di Internet mondiale si augura che la vicenda di Hossein abbia un epilogo diverso.
La sua vicenda giudiziaria è paradossale e la sua biografia “complessa e a tratti contraddittoria”, come riferisce Alessandra Cecolin, sua ex compagna di studi. “Hossein è un rampollo dell’élite conservatrice – continua Alessandra – la sua famiglia è molto vicina a Khamenei”, la guida suprema dell’Iran. Dopo essere stato educato nelle migliori università del Paese e dopo avere intrapreso la professione giornalistica, nel 1999 Hossein comincia ad occuparsi di Internet, cultura digitale e democrazia dalle colonne del quotidiano riformista Asr-e Azadegan (L’epoca dei liberi), chiuso quasi subito dagli ayatollah.
Nonostante questi siano i tempi del governo Katami e della sua timida azione progressista, Hoder decide di trasferirsi a Toronto, in Canada, dove apre il suo primo blog: Sardabir: khodam (Editore: me stesso), in lingua farsi. Ma prima di lasciare il paese il giornalista viene trattenuto per alcuni giorni dal Misiri, il ministero della sicurezza nazionale che lo interroga sul suo lavoro da giornalista o lo obbliga a firmare pubbliche scuse per la sua attività ritenuta sovversiva dal regime.
Una volta lontano da Teheran e dalle censure della Repubblica islamica, Hossein approfondisce le sue conoscenze sul ruolo che l’informazione online, i blog e i wiki possono avere nella battaglia per la libertà d’espressione. E’ in questi anni che si conquista il nickname di The Blogfather. Partecipa a incontri su media e democrazia in mezzo mondo, ma soprattutto dimostra ai ragazzi della sua generazione che attraverso Internet si possono aggirare le barriere della censura imposte dal regime iraniano. A tale riguardo nel 2003 fonda la piattaforma Stop censuring us (Basta censure), un sito che monitora la situazione della repressione sulla Rete in Iran. Dal 2004 gli ayatollah cominciano a censurare l’attività online del blogfather.
Dopo varie esperienze e dopo un viaggio in Israele (cosa vietata dalle leggi iraniane, anche se Hossein entra nello Stato ebraico con passaporto e cittadinanza canadese), il blogger comincia a pensare di tornare a Teheran. I suoi genitori si muovono all’interno della nomenclatura del regime per assicurarsi che dopo l’eventuale rimpatrio non ci siano conseguenze penali per la sua attività di blogger. Sembra tutto fatto e nel 2008 Hoder torna a casa. Per lui addirittura si profila un qualche incarico governativo. Ma una settimana dopo il suo rientro a Teheran, il primo dicembre, viene prelevato dall’abitazione di famiglia e portato in carcere. Passano i mesi e di Hossein non si sa niente, neanche in quale carcere è detenuto. La famiglia non conosce neanche i reati che vengono contestati al figlio. Alcuni media attribuiscono l’arresto ai viaggi in Israele che Hoder aveva puntualmente documentato nei suoi weblog.
Il 30 dicembre 2008, dopo due mesi dal suo sequestro, le autorità iraniane comunicano lo stato d’arresto dell’internauta ma nulla dicono dei capi di imputazione. Trapela la bufala che la vicenda abbia a che vedere con qualcosa che Hoder ha scritto sugli Imam puri, patriarchi dell’Islam sciita. Nell’aprile 2009 il New York Times riporta la notizia che ancora nessun capo di imputazione è stato formulato contro il blogger, che continua a rimanere in isolamento. Passa un anno e la notizia comincia a montare. Nonostante il severo controllo sull’informazione esercitato dal regime, 19 blogger iraniani mettono in piedi il sito Internet “Free the Blogfather” e anche la famiglia del ragazzo prende coraggio. Il 30 ottobre 2009, dopo un anno dall’arresto, il padre di Hoder scrive una lettera aperta al ministro della giustizia chiedendo di poter incontrare il ragazzo. La richiesta viene accolta e nell’incontro Hossein conferma quello che Human rights watch e altre organizzazioni per i diritti umani sostengono da tempo. In carcere è stato sottoposto a torture e a trattamenti umani degradanti.
Il 23 giugno, dopo quasi due anni di detenzione senza un’accusa ufficiale, inizia finalmente il primo processo che dura circa un mese. Dai palazzi però non trapela neanche una parola. Anzi sì. Si apprende che Hoder è stato condannato a morte con l’accusa di “collaborare con stati nemici, aver fatto propaganda contro il regime, aver oltraggiato l’Islam e aver aiutato gruppi anti-rivoluzionari”.
In Iran la spirale di repressione contro la libertà d’espressione continua, soprattutto dopo le manifestazioni di protesta in seguito alla dubbia rielezione del presidente Ahmadinejad nel 2009. Durante la detenzione di Hoder altri internauti sono finiti dietro le sbarre, come l’attivista Shiva Nazar Ahari. Intanto restano ancora da chiarire le circostanze della morte in carcere del blogger Omid Reza Mir Sayafi, avvenuta lo scorso 18 marzo 2009. La blogosfera iraniana e il popolo di Internet mondiale si augura che la vicenda di Hossein abbia un epilogo diverso.
Testo tratto da
CarvicoBlog, richiamando alla memoria la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e facendo proprie le motivazioni di lotta alla pena capitale nel mondo, si unisce alla campagna mondiale contro la condanna a morte di Hossein Derakhshan e invita i propri lettori a firmare l'appello sul sito internet http://www.gopetition.com/petition/31859.html
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